Fra migliaia di esopianeti ad ora confermati, che ipotesi possiamo effettivamente formulare circa la possibilità che qualcuno di essi possa ospitare forme di vita? Per rispondere a questa domanda dobbiamo considerare la presenza di biofirme, ovvero le tracce e i prodotti delle reazioni che direttamente o indirettamente sono associabili ad attività metabolica di esseri viventi.
Lo studio delle biofirme è uno dei rami di ricerca dell’astrobiologia, una materia interdisciplinare che accomuna ricercatori di fisica, astronomia e chimica dedita allo studio dell’origine dei composti organici nell’universo, dell’evoluzione dei sitemi planetari, delle condizioni di abitabilità e molto altro.
Essa classifica le biofirme in tre categorie principali:
- gassose
- superficiali
- temporali
Consideriamo anzitutto biofirme gassose: a questa categoria appartengono biofirme associate a processi metabolici ottenute da reazioni chimiche presenti nell’atmosfera di un esopianeta. Alcuni scienziati, tra cui Joshua Lederberg (premio Nobel per la chimica), suggeriscono che una condizione necessaria per attività biologica sia l’instabilità e disequilibrio delle reazioni chimiche.
Un modo per quantificare l’eccesso di disequilibrio chimico di un esopianeta è quello di riferirsi alla quantità di energia libera di Gibbs: in termodinamica l’energia libera di Giggs (o entalpia libera) ∆G rappresenta la quantità di potenziale termodinamico che può essere convertita in lavoro reversibile a temperatura e pressione costante. La differenza fra ∆G dell’esopianeta rilevato sulla “superficie” e il ∆G° teorico all’equilibrio chimico, può rappresentare un indice di attività biologica in quanto esprime la presenza di un potenziale energetico continuo su scala planetaria.
Se prendiamo come esempio la Terra, sappiamo che la presenza di O2 e di CH4 può essere un buon indicatore della presenza di vita: il metano infatti rilasciato come prodotto di scarto da batteri anaerobici, che usano idrogeno molecolare come principale fonte di fattore riducente, dalle mucche e dagli idrocarburi usati dall’uomo.
L’ossigeno invece è una molecola altamente reattiva, e la sua presenza in elevata quantità in atmosfera può essere indice dell’attività di un secondo processo di generazione in grado di fornire misura suppletiva superiore a quella che è coinvolta nelle reazioni. L’ossigeno inoltre viene prodotto anche per foto dissociazione dell’acqua e dal processo di fotosintesi clorofilliana (vediamo in seguito).
La presenza della coppia CH4 – O2 è quindi di per sé già un buon segno, tuttavia molto è funzione anche dalla classe spettrale della stella ospite: ad esempio nel caso di stelle di classe M, la radiazione ultravioletta che investirebbe il pianeta sarebbe minore rispetto a quella di una stella come il nostro Sole (classe G2V), quindi il processo di dissociazione del metano sarebbe inibito. Questo vuol dire che nello studio dell’abitabilità bisogna capire in che rapporti l’eccesso di metano (o di un altro composto) sia dovuto alla naturale diminuzione di radiazione UV oppure alla presenza di attività biologica.
Tra le famiglie di biofirme gassose bisogna considerare anche alcuni composti dell’azoto, quali:
- ossido di azoto (N2O), la cui presenza in atmosfera può essere messo in relazione con la presenza di batteri.
- Il biossido di azoto (NO2): un gas che viene generato dalla denitrificazione dei nitrati.
La possibilità di analizzare la composizione atmosferica di un esopianeta da terra o dallo spazio è già realtà, (ci sono già in corso missioni in questo senso come l’interferometro GRAVITY del Very Large Telescope dell’ESO o missioni in programma nel 2021 come il James Webb Telescope), ma l’idea di cercare marcatori gassosi risale al 1990 su proposta di Carl Sagan, noto divulgatore scientifico, in occasione della sonda Galileo diretta verso Giove. Egli convinse la NASA a puntare la strumentazione della sonda in direzione della Terra durante uno dei suoi fly – by a circa 1000 Km di altezza per analizzarne lo spettro. Sfruttando l’atmosfera del nostro pianeta come test, l’analisi dello spettrometro NIMS (Near Infrared Mapping Spectrometer) ne analizzò i costituenti, confermando la presenza di acqua (liquida e ghiacciata), e ad una grande quantità di O2.
Un secondo test è stato fatto anche nel 2008, ma da molto più distante con la sonda Deep Impact: gli astronomi hanno potuto così notare anche variazioni di luminosità in funzione della lunghezza d’onda e, sfruttando le osservazioni svolte in più giorni, furono in grado di inferire anche sulla presenza di sistemi nuvolosi. Lo stesso strumento ha registrato anche quello che per alcuni scienziati è la prova principale che identifica attività biologica: si tratta del picco nel rosso nello spettro visibile, ovvero la firma della clorofilla.
La clorofilla è un esempio di biofirma superficiale: a questa categoria appartengono biofirme le cui caratteristiche spettrali sono dovuti a effetti di scattering e riflessione della luce ad opera di composti prebiotici sul pianeta. Essi per poter essere prodotte hanno necessità di usare energia e, per definizione, hanno una natura biologica. La clorofilla in particolare, è un pigmento presente nelle piante responsabile dell’assorbimento della luce visibile nell’intorno della lunghezza d’onda di 0,663 µm e gioca un ruolo fondamentale nella fotosintesi clorofilliana.

La fotosintesi è un processo fondamentale sulla Terra e si divide in:
- anossigenica in cui entrano in gioco composti come H2S e utilizzato dai batteri sulfurei.
- Ossigenica: in questo secondo caso a partire da CO2 e H2O (e fotoni) le piante producono come prodotto di scarto O2 e zucchero semplice. Questo pigmento è in grado di assorbire la luce rossa (e parzialmente anche blu) e riflettere il verde (per questo motivo le foglie sono di questo colore).
Si ritiene che questa caratteristica sia una conseguenza evolutiva per sopravvivere in un ambiente che riceve radiazione tipica delle che hanno un profilo di emissione come il Sole. In questa prospettiva è possibile immaginare un bio marcatore con dei picchi di assorbimento a lunghezze d’onda diverse dalla clorofilla per un altro un esopianeta? Gli astronomi ipotizzano che potrebbero esistere altri pigmenti vegetali (ad esempio il retinale?) più semplici la cui firma biologica sia basata sull’assorbimento della luce verde.
Le biofirme temporali infine, si riferiscono agli impatti che le attività di esseri viventi hanno sull’ambiente circostante del pianeta: esse sono molto più variegate e sono usate dagli organismi viventi per rispondere ai diversi stimoli ambientali che innescano di conseguenza delle reazioni naturali di difesa. Consideriamo per esempio la Terra: sul nostro pianeta si nota una variazione stagionale di CO2 dovuta alla variazione di insolazione in funzione della latitudine e dell’emisfero: nell’emisfero in cui l’attività vegetativa è elevata (primavera/estate) la quantità di CO2 diminuisce mentre è minima nell’emisfero opposto (autunno/inverno): la situazione si inverte sei mesi dopo. Queste considerazioni indicano che un fattore determinante per l’analisi di questo tipo è l’angolo di vista dell’osservazione.

Ovviamente la coesistenza di biofirme non indica di per sé attività biologica: si tratta una condizione necessaria (ma non sufficiente) di abitabilità e bisogna fare attenzione a non generalizzare. Lo stesso metano per esempio, può essere prodotto dal processo di erosione dell’acqua per serpentinizzazione di alcuni minerali Maggiori informazioni si hanno sul pianeta e più precise sono le considerazioni che si possono fare per escludere dei falsi positivi.
Dal fronte opposto la conferma di più biofirme rafforza dal punto di vista statistico la possibilità che sia effettivamente presente attività biologica, e proprio su questo aspetto che gli astronomi si concentrano: incrociare sempre più dati disponibili provenienti da marcatori diversi per formulare ipotesi più vicine alla realtà (finché non saremo in grado di fare ricerca in situ …).
Un altro supporto fondamentale per lo studio delle biofirme in atmosfera è l’introduzione di modelli matematici. Essi si basano principalmente su:
- simulazioni numeriche al computer: partendo dai costituenti dell’atmosfera presenti nello spettro si suddivide il pianeta in griglie superficiali, quindi per ogni settore del reticolo si sviluppano modelli matematici di circolazione del calore.
- metodi di validazione statistica bayesiana: al fine di individuare e limitare gli eventi falsi positivi (vedi sopra): partendo sempre dai costituenti dell’atmosfera e dai parametri fisici dell’esopianeta (massa, densità, atmosfera, orbita…) si formula un modello statistico di validazione la cui soluzione viene confrontata con i dati ottenuti da altri sistemi planetari per confermare/rigettare la validità del modello (valutando anche la similarità con la Terra, ESI).
Si tratta sempre di un processo in cui il continuo confronto e il feedback riveste una fase fondamentale del lavoro.
Riferimenti
- Per i modelli molecolari: https://sketchfab.com
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