Parallelamente lo studio e la comprensione della luce, portano nella seconda metà del XIX secolo, alla descrizione unificata dei fenomeni elettrici e magnetici; nasce la teoria dell’elettromagnetismo che vede come risultato finale la formulazione delle equazioni di Maxwell (1831 – 1879). Nella comunità scientifica nacque quindi l’esigenza di estendere i risultati della meccanica classica ‘newtoniana’ in modo da considerare anche i risultati ottenuti dall’elettromagnetismo.
Gli scienziati, partendo dalle conoscenze teoriche di Galileo e Newton, si chiesero allora se era possibile identificare in che mezzo si propagasse un’onda elettromagnetica (per esempio la luce), ed ipotizzarono l’esistenza di un mezzo etereo, che permea l’intero spazio, da assurgere come punto di riferimento immobile rispetto a tutti gli oggetti, e quindi anche alla luce stessa, entro la quale essa doveva muoversi.
L’esistenza di questo ipotetico mezzo veniva giustificata se consideriamo i fenomeni ondulatori della luce; così come un’onda sonora si propaga nell’aria (o in un altro mezzo) anche la luce avrebbe dovuto propagarsi in questo mezzo chiamato etere.
Dato che doveva muoversi rispetto tutti gli oggetti, ovviamente anche la Terra non avrebbe dovuto far eccezione, e nel 1887 gli scienziati Michelson (1852 – 1931) e Morley (1838 – 1923) condussero una serie di esperimenti basati sul fenomeno dell’interferenza della luce in diverse condizioni per cercare di capire se era possibile rilevare il moto della Terra rispetto all’etere, ma i risultati furono negativi: non c’era alcuna evidenza di un moto di composizione della luce rispetto all’etere; la velocità della luce – che in fisica si indica con c – era sempre costante (oggi sappiamo che vale 299 792 km/s). Le leggi di composizione delle velocità galileiane continuavano a essere incompatibili con l’elettromagnetismo e la ricerca (o rassicurazione) di un sistema di riferimento assoluto per la descrizione dei fenomeni fisici rimaneva una chimera.
Si deve aspettare l’inizio del secolo successivo, e precisamente nel Giugno 1905, quando Albert Einstein (1879 – 1955) pubblica un articolo dal titolo “Zur Elektrodynamik bewegter Körper” (ovvero, “Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento”) sugli annali di fisica: lo scienziato non crede che esista un sistema di riferimento assoluto né all’esistenza di un mezzo di propagazione per la luce (così come mostrano gli esperimenti sull’etere). Se le trasformazioni galileiane fossero valide per tutti i fenomeni fisici, allora sarebbe possibile avere un valore della velocità della luce c diverso da un sistema di riferimento inerziale a un altro.
Occorre quindi abbandonare definitivamente le trasformazioni di Galileo, ed estendere il concetto di relatività galileiana aggiungendo un nuovo principio (relatività ristretta) per studiare anche i fenomeni elettromagnetici con una teoria priva di contraddizioni; eccoli:
- Non esiste alcun sistema di riferimento inerziale privilegiato; e le leggi fisiche sono le stesse in ogni sistema inerziale (Galileo).
- La velocità della luce c è uguale in ogni sistema di riferimento inerziale (Einstein).
La velocità della luce diventa quindi un’invariante del sistema che non dipende dal sistema di riferimento: questa nuova ipotesi porta necessariamente ad una diversa definizione di simultaneità degli eventi sempre salvando il concetto di causalità (poiché se c è costante per ogni sistema di riferimento cambia ciò che osserviamo): ciò che lo è in un sistema non lo è per un altro, un orologio in movimento appare sempre più lento ad un osservatore fermo.
Anche il tempo deve essere rivisto: non è più un concetto assoluto ma dipende dall’osservatore; affinché le trasformazioni galileiane tengano conto di ciò, Einstein introduce un fattore correttivo e una coordinata temporale come quarta dimensione oltre alle tre classiche spaziali.
Le nuove equazioni del moto vengono aggiornate con un fattore correttivo basato sulle trasformazioni di Lorentz (1853 – 1928) che rappresentano un’invariante per le quattro equazioni di Maxwell. Tra le conseguenze meno intuitive (ma assolutamente vere) della relatività ristretta abbiamo la dilatazione dei tempi e la contrazione delle lunghezza di un oggetto nella direzione del moto per un osservatore fermo, mentre per un osservatore solidale con l’oggetto in movimento la lunghezza non cambia.
Facciamo un altro esempio: una macchina ferma in sosta ad un parcheggio: la macchina sta compiendo l’intero suo moto nel tempo ma è immobile nella dimensione spaziale; quando il proprietario mette in moto e riparte allora una quota del moto complessivo che prima era solo nel tempo viene trasferita nello spazio, quindi la velocità nel tempo rallenta.
Ovviamente possiamo descrivere il moto di una macchina con il solo l’ausilio della fisica classica (quella di Newton e Galileo), perché anche se son sempre presenti, le variazioni di lunghezza e tempo in questo caso sono veramente trascurabili; ma entrano in gioco e non possono essere trascurate quando abbiamo a che fare con velocità prossime a quelle della luce. In definitiva i concetti di spazio e tempo non sono più separabili, ma esiste uno spazio-tempo indivisibile come se fosse un oggetto fatto di unico blocco che viene visto sotto diversi angoli (fette temporali diverse) in funzione dell’osservatore in moto relativo (analogia tratta dal libro “L’Universo elegante di Brian Greene).
Sembrava quasi fatta, ma erano ancora esclusi dal principio di relatività i sistemi non inerziali, ovvero per i sistemi che sono in moto accelerato rispetto a un altro, cosa cambia? E’ possibile estendere il principio di relatività ristretta anche a essi?
Seguiamo il pensiero di Einstein e facciamo un esperimento mentale, o Gedankenexperiment, come era eccezionalmente capace lo scienziato tedesco. Andiamo nello spazio, e consideriamo un’astronave isolata (anche essa senza oblò), in modo tale che un osservatore al suo interno non possa avere punti di riferimento esterni. Se supponiamo che l’astronave si trovi isolata (cioè l’unico corpo presente nel nostro esperimento o comunque talmente lontano da corpi celesti da rendere totalmente trascurabile la forza di gravità), su di essa non agisce alcuna forza e il nostro osservatore (o astronauta) è privo di peso e fluttua liberamente al suo interno; cambiamo ora la situazione e supponiamo per esempio che la stessa astronave (senza oblò) con lo stesso astronauta al suo interno si trovi all’interno di un campo gravitazionale (per esempio quello terrestre) e sia in caduta libera (quindi in accelerazione) verso il corpo celeste responsabile del campo: ebbene lo stesso astronauta continuerebbe a fluttuare al suo interno e non riuscirebbe a notare alcuna differenza perché l’ accelerazione della caduta cancella la forza di gravità.
Per Einstein i due effetti sono equivalenti: l’astronauta non può distinguere se sta subendo gli effetti di caduta libera in un campo gravitazionale oppure sia lontano da campi gravitazionali.
Analogamente lo stesso astronauta non è in grado di distinguere se sta subendo un’accelerazione all’interno dell’astronave oppure è soggetto al campo gravitazionale di un oggetto vicino. Se l’astronauta non vuole sentire la gravità allora deve accelerare, ovvero Einstein mette in relazione l’equivalenza fra la forza di gravità e la forza che l’astronauta subisce in un’accelerazione: sono la stessa cosa. In particolare solo la geometria dello spazio-tempo è il riferimento per capire se abbiamo a che fare con moti accelerati o meno: una traiettoria curva dello spazio-tempo vuol dire che abbiamo a che fare con un moto accelerato, quindi:
Le misure di spazio e di tempo sono influenzate anche dal campo gravitazionale in cui lo sperimentatore è immerso; ovvero dal tipo di geometria dell’Universo in cui lo sperimentatore compie la misura.
Einstein pubblicò la teoria della relatività generale nel 1916, e per raggiungere questo risultato, usò il calcolo tensoriale (un nuovo concetti matematico sviluppato dagli italiani Ricci – Curbastro), per legare il tipo di geometria dello spazio-tempo con la distribuzione di massa energia.
Per Einstein la gravità quindi è una curvatura (ricordiamo quanto detto prima che per Newton la gravità è una forza): la massa della Sole per esempio distorce la geometria dello spaziotempo intorno ad esso e su questa nuova ‘geometria modificata’ la Terra percorre il suo cammino intorno al Sole. Ovvero come si dice: la materia deforma lo spazio-tempo e quest’ultimo dice alla materia come muoversi.
Concetto difficile ma che ad oggi è stato ampiamente verificato ed usato in moltissimi campi: negli acceleratori di particelle, nella meccanica celeste (precessione del perielio dell’orbita di Mercurio) nella medicina nucleare, nei reattori nucleari ed nei satelliti artificiali.
Partendo da Galileo, abbiamo visto come sia nato il concetto di relatività, come sia evoluto con Newton ed infine esteso grazie al lavoro di Einstein. Nessuno da solo ha completato il lavoro, ma sicuramente ha contribuito a una parte mancante del concetto di ‘relatività’ e lo ha esteso in ambito più generale grazie all’introduzione di nuovi concetti matematici, rimanendo all’interno della coerenza con le precedenti teorie che diventavano, a mano a mano, semplificazioni od approssimazioni della nuova teoria che la includeva.
Bibliografia
- I ‘Principia’ di Newton: http://cudl.lib.cam.ac.uk/view/PR-ADV-B-00039-00001/9 Cambridge Digital library
- Il ‘Dialogo’ di Galileo: http://www.astrofilitrentini.it/mat/testi/dialogo.html
- http://planet.racine.ra.it/testi/relativita.htm
- http://astrocultura.uai.it/cosmologia/naturaspaziotempo.htm
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